tasse sulle rendite


Aumento delle tasse sulle rendite

Tassare le rendite

Più tasse sui nostri risparmi? No, grazie!

Le chiamano "rendite finanziarie”. Il termine "rendita” nelle scienze economiche ha tutt’altro significato, definisce il guadagno che deriva dalla proprietà della terra.

Oggi tale termine viene usato volutamente in modo errato e ipocrita per suggerire l’idea che i percettori di redditi finanziari, i risparmiatori, siano dei ricchi parassiti immersi nell’ozio, che vivono, appunto, "di rendita”, e non producono nulla.

La realtà è ben diversa. I risparmi investiti in titoli di stato e buoni postali, che oggi non rendono quasi nulla, vengono polverizzati anno dopo anno dall’inflazione.

Chi oggi non dedica tempo, lavoro, energie e soldi nella personale ricerca del miglior investimento finanziario, e investe a caso, sicuramente non sta guadagnando niente, anzi sta rimettendoci. Chi si affida alla gestione altrui non arricchisce, ma fa arricchire il gestore.

Se si vuole tirare fuori dagli investimenti finanziari qualche euro, occorre divenire dei trader, almeno a livello semiprofessionale. E i trader sono lavoratori come gli altri, il loro lavoro di investimento finanziario è un lavoro durissimo, senza orari né ferie, ad altissimo rischio (soprattutto in Italia, dove sono non esistono reali protezioni per i risparmiatori), lavoro che richiede una preparazione e un impegno enormi, continui, impensabili.

Perché allora si continua ad usare l’errato termine "rendite”, dipingendo i risparmiatori come ricchi oziosi, come parassiti da tartassare? La risposta è molto semplice: tutto il gran parlare che si fa, tutta la demagogia sulle "rendite” finanziarie, è opera di ben determinate caste industriali e corporative, le quali mirano a pagare meno tasse e a tassare di più gli altri Italiani.


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Esaminiamo innanzitutto sinteticamente quali sono i redditi da investimento finanziario:

DIVIDENDI: parte degli utili di una società distribuita agli azionisti. Il risparmiatore che investe acquistando azioni di una società diviene comproprietario pro quota di quella società.

PLUSVALENZE o CAPITAL GAINS: differenza tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di uno strumento finanziario, azione, obbligazione, future, ecc.. Il risparmiatore, con un difficile lavoro di trading, cerca di guadagnare sulla differenza di prezzo, rischiando però molto seriamente di perdere.

INTERESSI: remunerazione del capitale prestato. Il risparmiatore, investendo in (cioè comprando) obbligazioni (bond) emesse o da stati (BTP, BOT, Bund) o da società private (corporate), presta loro soldi, rischiando di non riaverli indietro (bond Cirio, bond argentini), e in cambio riceve un interesse. Non rendono più quasi nulla, invece, depositi e conti correnti, anzi questi ultimi spesso generano costi netti per il correntista.

In tutti e tre i tipi di redditi finanziari ora visti, vi è un guadagno reale solo se a fine anno l’accrescimento monetario dei soldi del risparmiatore è superiore alla perdita di valore, di potere d’acquisto dei soldi stessi, cioè se è superiore all’inflazione effettiva; altrimenti c’è una perdita reale (o rendimento reale negativo). In questi ultimi anni i guadagni monetari sono stati e sono tuttora nettamente inferiori all’inflazione effettiva, quindi i risparmiatori stanno perdendo soldi e non guadagnando.

L’aumento della tassazione sui risparmi dei cittadini è iniquo, ottuso e controproducente per lo sviluppo del paese perché:

1. i possessori di grandi patrimoni mobiliari (tra cui molti di quegli industriali che oggi chiedono a gran voce di tartassare i risparmi) non verranno minimamente scalfiti da tale aumento della tassazione sui redditi finanziari, in quanto costoro o hanno già la residenza fiscale all’estero, o hanno messo in atto escamotage di fiscalità internazionale, quali trust e holding offshore, per cui già oggi non pagano all’Italia un centesimo di tasse su tali grandi capitali mobiliari, né l’Italia può e potrà fare nulla contro di loro; l’aumento della tassazione sui redditi finanziari mira a colpire quindi solo i piccoli e medi risparmiatori;

2. i risparmiatori sono stati i più svantaggiati nella redistribuzione del reddito degli ultimi anni, tra rendimenti reali negativi, crollo della new economy, crisi dei subprime, crack di società quotate (Parmalat, Cirio, Ferruzzi…), aumenti di capitale che annacquano il valore delle azioni, crollo dei titoli bancari e assicurativi; nel contempo i prezzi degli immobili, anche delle più scassate bicocche, sono saliti eccessivamente gonfiati dai tassi ai minimi del secolo;

3. il risparmio è denaro, moneta, e come tale è soggetto ad inflazione, cioè a perdita di potere di acquisto, ovvero a perdita di valore. Questa perdita di valore va a favore dello stato, uno stato debitore in quanto è lui che emette, direttamente o indirettamente, tale moneta. Quindi l’inflazione è una tassa, è il più pesante e subdolo tributo che colpisce la classi meno abbienti, famiglie, lavoratori, anziani. Tutti sperimentiamo quotidianamente che in Italia c'è un'inflazione ben superiore a quella ufficialmente dichiarata dall'ISTAT; il risparmio è quindi già di per sé pesantemente tassato dall’inflazione;

4. decine di migliaia di risparmiatori nei decenni scorsi hanno ripopolato Svizzera, Montecarlo e Austria, fuggendo dall’Italia, portando via i loro sudati soldi anche quando il farlo costituiva reato, pur di difenderli e salvarli; far fuggire anche gli ultimi rimasti sicuramente non aiuta l’Italia a risalire la china dello sviluppo economico. Se verrà elevata l’aliquota sui redditi finanziari l’Italia avrà perso per tali risparmiatori l’ultima attrattiva che le era rimasta. Di paradisi fiscali sparsi per il mondo (o neanche troppo lontani) che li aspettano a braccia aperte, e già pieni di Italiani, ne trovano quanti ne vogliono. E gli anni '60 e '70 hanno ampiamente dimostrato che i capitali in fuga non possono essere fermati;

5. in Italia i redditi da risparmio costituiscono comunque, se non altro a livello psicologico, una parte consistente del potere d’acquisto e di consumo delle famiglie; la diminuzione di tali redditi, annientati dalla tenaglia bassi rendimenti – aumento della loro tassazione, ha devastanti effetti depressivi su economia e consumi, innestando una spirale di stagnazione che può durare decenni, come è successo in Giappone;

6. la fuga dagli investimenti finanziari spingerebbe la gente non a consumare bensì ad investire ancora di più in immobili, e quindi causerebbe un aumento dei prezzi degli immobili già ora insostenibili, rendendo impossibile ai meno abbienti e alle nuove coppie l’acquisto della prima casa;

7. sotto il profilo quantitativo, il beneficio per le finanze dello stato derivante dall’aumento della tassazione sui redditi finanziari è miserabile, irrisorio, con più svantaggi che vantaggi: per poche centinaia di milioni di euro da racimolare in bilancio si va a infliggere un danno irrimediabile a un settore vitale per l’economia e lo sviluppo del Paese. E’ ben chiara la creduta valenza politico-demagogica del "tassiamo il risparmiatore perché ricco”, nettamente obsoleta in relazione all'attuale composizione del patrimonio della maggioranza degli Italiani: i risparmiatori non sono i ricchi, ma le famiglie, i lavoratori, i pensionati, chiunque con rinunce e sacrifici mette da parte qualcosa per il futuro suo e della sua famiglia;

8. chi ha risparmi da investire in strumenti finanziari, ha tali risparmi perché, rinunciando a consumarli, ha messo da parte una quota dei suoi redditi: redditi già tassati dall’imposta sul reddito nei periodi fiscali in cui sono stati percepiti; i risparmi sono quindi reddito già tassato;

9. i dividendi, in quanto utili societari, sono già tassati in capo alla società, la quale li distribuisce al netto dell’imposta societaria ai risparmiatori-azionisti, i quali poi, nuovamente, pagano l’imposta sostitutiva su di essi; i dividendi sono quindi già doppiamente tassati;

10. le plusvalenze e gli interessi sono guadagni per chi li percepisce, ma perdite per chi li paga: il saldo finale per l’intera economia è zero, non vi è valore aggiunto assoggettabile equamente a tassazione, né motivi equi per cui il fisco si intrometta tra chi perde e chi guadagna;


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11. se certi industriali non sono bravi a fare profitti non è per il carico fiscale che subiscono, di fatto bassissimo: l’aliquota sul reddito d’impresa è fittizia, visto che si applica non su tutto il reddito, ma solo sul reddito imponibile, e qualsiasi commercialista è in grado di decimare l’imponibile del reddito d’impresa. Le aliquote sui redditi finanziari, invece, si applicano su tutto il reddito, fino all’ultimo centesimo, non essendovi alcuna possibilità di dedurre costi e spese dall’imponibile. Quindi il paragonare l’imposta sul reddito d’impresa o le aliquote irpef alla ben diversa imposta sostitutiva del 12,5% sui redditi finanziari (l’imposta sostitutiva non ammette detrazioni né deduzioni) è ipocrita e pretestuoso. Il vero problema, insormontabile, è che il costo del lavoro italiano è dieci volte quello cinese o indiano;

12. è semplicemente una presa per i fondelli l’affermazione che l’aumento dal 12,5% al 20% dell’aliquota su BOT e guadagni di borsa verrebbe compensato dalla diminuzione dal 27 al 20% della tassazione sui conti correnti (in questo consisterebbe la famigerata ”armonizzazione delle aliquote”): sappiamo tutti che i conti correnti non rendono praticamente nulla, anzi, spesso danno rendimenti infinitesimali ben inferiori al loro costo;

13. per i risparmiatori le perdite finanziarie (minusvalenze) sono deducibili dal reddito imponibile solo per quattro anni, quando i cicli economici e di borsa durano ben più di quattro anni. Esemplificando molto, se nell’arco di dieci anni il risparmiatore ha guadagnato 10 e perso 20, con un risultato finale netto negativo (perdita) di –10, ha comunque buone probabilità di pagare tasse come se avesse guadagnato +5 (può sembrare assurdo, ma è così, questa è la legge in vigore);

14. il risparmio è il principale mezzo per la mobilità sociale. Le famiglie meno agiate possono sperare di elevarsi dalla loro posizione sociale semiservile solo mettendo da parte risparmi e costruendosi pian piano un proprio patrimonio familiare. Tassare il risparmio delle famiglie, dei lavoratori, vuol dire condannarli a una semi schiavitù perenne, il che probabilmente è proprio quello che certe caste di ricchi potentati vogliono quando pretendono l’aumento della tassazione sui rendimenti del risparmio popolare. Proprio a tutela delle possibilità di mobilità sociale per le classi meno abbienti, la nostra Costituzione agli articoli 42 e 47 tutela la proprietà privata degli immobili e il risparmio in tutte le sue forme.

Nell’ultimo secolo di "riformismo”, la pressione fiscale non ha fatto altro che salire, depredando i cittadini, i lavoratori, le famiglie, squilibrando il mercato, soffocando l’economia, distorcendo la libera concorrenza, foraggiando apparati pubblici clientelari, parassiti e vessatori.

Oggi, se vogliamo rimanere un paese produttivo, libero e democratico, dobbiamo assolutamente invertire tale tendenza, seguendo fedelmente un unico semplice principio: nessuna nuova tassa deve essere creata, nessuna tassa esistente deve essere aumentata, tutte le tasse esistenti devono essere diminuite o, se possibile, abolite. Meno spesa pubblica e meno sprechi, e non più tasse a questo o a quello.

La tassazione italiana sui risparmi può benissimo essere lasciata così com'è, perché è già equilibrata e sopportabile. Se la si vuol cambiare, e si vuol esser giusti, si tassino i rendimenti netti, effettivi, veri, cioè i rendimenti lordi depurati dalla perdita di potere d'acquisto dei risparmi: vediamo se oggi sottraendo l'inflazione ai rendimenti lordi rimane qualcosa da tassare.

Le classi agiate possono permettersi di chiedere più tasse sul risparmio delle persone: il regime fiscale aziendale detto PEX e la possibilità di creare holding in paradisi fiscali consente ai grandi patrimoni e tesoretti degli imprenditori di non pagare quasi nulla allo stato italiano.

La tassazione del 12,5% imputabile alle persone fisiche è quella che invece le persone comuni, famiglie, lavoratori, anziani, pagano. Ed è questa che a gran voce il grande padronato e le corporazioni della casta chiedono di alzare, anzi, di raddoppiare: più tasse su azioni, titoli di stato, fondi; ma si badi bene più tasse solo sulle attività finanziarie dei singoli individui, non sulle società o su scatole finanziarie. Anche i sindacati partecipano volentieri al banchetto. Tasse più alte sul risparmio delle famiglie significano maggiori vantaggi per i loro fondi pensione, fiscalmente privilegiati.

Un Berlusconi indebolito sembra oggi voler cedere a queste richieste. E i risparmi degli Italiani chi li sta difendendo? Chi può scapperà all’estero, ma chi non può cosa farà? Cosa farà l’anziano che ha messo da parte qualche euro, per garantirsi qualcosa in un paese che non garantisce nulla? Cosa farà la famiglia dell’operaio che con rinunce e sacrifici cerca di accumulare soldi, magari per comprarsi una casa, o per far studiare i figli? Chinerà la testa e pagherà il tributo, ciò che sempre ha fatto il povero di fronte al potente.

Autore: Filippo Matteucci
Economista 28/06/2011


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