cosa è la democrazia sostanziale

Democrazia formale e Democrazia sostanziale

Democrazia formale e democrazia sostanziale

L’appellativo di Hans Hermann Hoppe, "La democrazia, il Dio che ha fallito”, è arbitrario se applicato al significato essenziale del concetto "democrazia”, ovvero comando del popolo.

Il fallimento nelle intenzioni di rendere il popolo sovrano è caso mai ascrivibile alla democrazia elettiva, delegata.

E questo non stupisce di certo. Da che mondo è mondo, chi delega potere, perde potere.

Negli ultimi due secoli il popolo non è stato mai sovrano. Semplicemente una borghesia di bassa qualità e spesso dedita a traffici criminali ha tolto il potere ai Re e ai nobili che lo detenevano in precedenza.

Questo ha significato un regresso di civiltà, un peggioramento della qualità dei governanti.

Se la qualità di governanti di monarchi e aristocratici era talvolta mediocre, la qualità di governanti dimostrata dai modern days kings, ovvero dalle famiglie della grande imprenditoria e della criminalità organizzata, è conclamatamente infima, peggiore.

Il popolo, in questo passaggio di potere dall’aristocrazia ai dominanti di oggi, ha svolto o l’imbelle ruolo di spettatore passivo, o quello di marionetta di rivoluzioni e manifestazioni di piazza, marionetta di cui altri tiravano i fili.

Si può quindi parlare di fallimento della democrazia nel senso di fallimento della democrazia elettiva, delegata.

La tanto sbandierata democrazia elettiva è solo forma, fumo che nasconde una dura sostanza fatta di tirannie oligarchiche prive di ogni virtù, che controllano tutto, anche la mente della gente.

I parlamenti altro non sono stati che ben nutriti assembramenti di maggiordomi e lacchè dei padroni del momento, più che di zelanti e diligenti rappresentanti del popolo.

Le tecniche di nomina dei parlamentari, dal voto di scambio alla socializzazione dei costi del consenso, sono state appositamente studiate per ottenere questo risultato, per far permanere il potere nelle mani delle famiglie dominanti.

Il popolo, se vuole realmente attuare la democrazia, se vuole comandare su se stesso, deve partecipare direttamente al potere, senza deleghe e mediazioni.

Ovviamente un popolo può ottenere un simile inusuale risultato solo se è un popolo ad altissima civilizzazione, acculturato, autocosciente, determinato a spazzare via i suoi nemici con ogni mezzo, consapevole che chi si lascia amministrare arricchisce l’amministratore e impoverisce se stesso, chi delega agli altri lavorerà per arricchire altri.

L’art. 3 della costituzione della repubblica italiana confessa e riconosce questa differenza tra forma e sostanza, tra quello che viene raccontato al popolo e la cruda realtà del potere, in relazione ad un altro principio fondante, almeno sulla carta, quelle moderne democrazie accusate a ragione di fallimento da Hoppe: il principio di uguaglianza.

Per le famiglie dominanti il principio di uguaglianza significa solo che il padrone vuole tutti i servi uguali davanti a lui.

In effetti l’uguaglianza rappresenta un sogno, o un incubo, utopico: nessuno è uguale a nessun altro. Pur tuttavia al popolo servo deve esser regalata l’illusione che il servo sia uguale al padrone, confondibile con esso, come nella Pubblicita' di una qualche multinazionale.

E’ questa la cialtronesca religione del "tutti al..”: tutti al mare, tutti in vacanza, tutti in discoteca, tutti insieme, senza distinzione di censo, sesso, razza, religione ecc..

La dura realtà, quella che è così penoso guardare bene in volto senza ingannare se stessi, è ben diversa. E l’art. 3 della costituzione italiana lo riconosce.

Esso testualmente recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

E’ compito della repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

E’ questo uno degli articoli più significativi della costituzione, permeato dalle ideologie dello scorso secolo. E’ molto chiara in esso la distinzione fra l’uguaglianza formale del primo comma (uguaglianza davanti alla legge) e l’uguaglianza sostanziale, di fatto, del secondo comma.

Rimarchevole anche il dovere imposto alla repubblica di rendere effettiva, concreta, l’uguaglianza sostanziale rimovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale ad essa opponentisi, cosa che ovviamente lo stato, saldamente in mano alle famiglie padrone e non al popolo, si è sempre ben guardato dal fare.

Analoga distinzione ed analoga imposizione di doveri la costituzione non prevede invece per l’altro, ben più concreto, "valore” di diritto pubblico, e cioè la democrazia.

La costituzione dà per scontato che il modello di democrazia formale elettiva da essa delineato sia quello esaustivo, limitando all’osso gli istituti di democrazia diretta.

Contro questa chiusura dell’universo di discorso circa il concetto e il significato di "democrazia” deve intervenire la teoria del diritto pubblico, la cultura giuspubblicistica, e, di conseguenza, anche l’istruzione giuridica.

La teoria giuspubblicistica, così come la sua storia, presenta infatti una vasta gamma di modelli di democrazia da prendere in considerazione, da valutare in confronto col modello formale adottato dalla costituzione.

In particolare il confronto differenziale porta a risultati di estrema chiarezza nel momento in cui la democrazia formale, solitamente indiretta, elettiva, rappresentativa, quindi delegata, magari reiteratamente, viene paragonata alla democrazia diretta, nelle sue versioni storiche, peraltro non numerose (i dominanti non l’hanno mai gradita), dall’ecclesia dell’antica Atene ai comizi curiati e centuriati della Roma repubblicana, dai soviet della prima rivoluzione russa ai referendum approvativi della Confederazione Elvetica.

Il popolo è stato talmente condizionato concettualmente, indotto e abituato a confondere la democrazia con le "libere” elezioni, che è indispensabile qualche chiarimento.

Per introdurre anche i più distratti alla tematica dell’effettività della democrazia, teniamo ben presenti le finalità di conferimento di potere normativo, amministrativo e impositivo.

Partiamo dall’esempio di scuola dell’amministrazione del condominio, ben chiaro a tutti in quanto riscontrabile nella quotidianità concreta della maggior parte delle famiglie.

I condòmini hanno più possibilità: partecipare personalmente alle assemblee o delegare altri condòmini o addirittura l’amministratore; delegare la gestione a un solo condòmino o, peggio, a un amministratore professionista esterno, o invece ricoprire loro stessi a turno tale carica privata, magari collegialmente.

Credo siano per tutti ben evidenti le diverse conseguenze, sia in ordine a chi di fatto deterrà il potere nel condominio, sia alla diversa efficienza e trasparenza della gestione risultante, sia a quanti soldi verranno richiesti ai condòmini per l’amministrazione, sia a che fine faranno tali soldi, quali tasche andranno ad arricchire, a seconda che nel condominio si scelga la gestione diretta da parte dei condòmini o invece la delega della gestione stessa.

La trasposizione dei modelli di divisione o compartecipazione del potere, in particolare dei poteri normativo e gestionale, dal condominio a collettività organizzate più vaste, dal quartiere al comune, dalla regione allo stato, viene così naturale e di facile comprensione.

Da tale trasposizione nascono interrogativi che possono essere posti quali stimoli per riflessioni critiche, primo fra tutti quello classico: è possibile trasporre il modello di democrazia diretta da piccole collettività quali il condominio o la polis greca, nelle quali vi è un’agevole partecipazione generalizzata dei soggetti componenti, a collettività più vaste? Con quali modalità e accorgimenti di ingegneria costituzionale?

Occorre primariamente anche spiegare il perché delle accuse di falsità, inautenticità, formalismo e di fallimento rivolte alla democrazia elettiva delegata, ovvero quali difetti intrinseci tale modello, nato dalle migliori intenzioni dei suoi teorizzatori, ha sempre avuto, e quali ulteriori distorsioni ha dovuto subire ad opera di chi non ha mai accettato in nuce il concetto di democrazia tout court. Ne cito solo uno per brevità.

E’ il popolo che decide quali persone vengono candidate nelle liste elettorali per elezioni realmente significative quanto a conferimento di poteri, quali quelle politiche nazionali o amministrative regionali?

La risposta è ovviamente no. E allora occorre chiedersi: chi decide? I partiti? Parliamo di un’entità astratta, sfuggente, anonima, depistante: chi controlla il partito?

In realtà famiglie di potentati economici locali o nazionali, in varia guisa alleate fra loro e controllanti questo o quel partito, decidono chi dovrà sedere in parlamento, giunta, consiglio, per obbedire ai loro ordini e fare i loro interessi e non certo quelli del popolo.

E’ naturale che a tal fine candideranno soggetti che hanno dato prova di fedeltà e obbedienza a chi conferisce loro cariche pubbliche e prebende, ben disposti a calpestare diritti e giustizia.

Un discorso analogo può farsi per il conferimento per concorso pubblico (art.97 comma 3 e 106 comma 1 cost.) di pubblici uffici, comportanti attribuzione di poteri, come le sempre emergenti vicende di quel fenomeno definito dai giornali "concorsopoli” comprovano.

Non solo. La Scuola di Francoforte e in particolare Herbert Marcuse hanno ben studiato le nuove forme di controllo che il sistema delle multinazionali in mano a poche famiglie di ultraricchi (come li definisce Vance Packard) ha a sua disposizione.

Sono finiti i tempi in cui i Premier ordinavano ai generali di sparare sugli scioperanti: oggi non ce n’è più bisogno.

La manipolazione delle coscienze, il lavaggio massmediatico dei cervelli, portano il lavoratore – consumatore ad occuparsi di altro, calcio, sesso, discoteche, droga, programmi televisivi spazzatura, concerti di giullari strapagati perché funzionali al regime, consumi superflui o inutili vacanze, tutto fuorché la gestione del potere pubblico, del denaro pubblico, dell’organizzazione della struttura economica, in una parola dell’esercizio democratico del potere.

Il dovere verso noi stessi di prestare maggiore attenzione al fenomeno e di preoccuparci sussiste a maggior ragione quando le famiglie dominanti traggono il loro potere e la loro ricchezza da traffici illeciti e dal controllo di organizzazioni criminali.

Tutto ciò, a prima vista, sembrerebbe corrispondere alla concezione marxiana del diritto come sovrastruttura dell’unica realtà portante consistente nella struttura economica.

Senonché, almeno qui in Italia, non esistendo un libero mercato, la stessa ricchezza economica non dipende per lo più dalla competitività del singolo o della famiglia, bensì dai favori statuali, quindi, in ultima analisi, dall’essere lacchè benvoluti delle famiglie che controllano lo stato, il fisco, la spesa pubblica.

Quanto detto può essere meglio compreso mediante paragoni storici delle istituzioni giuridiche di potere. In particolare va fatto rilevare il passaggio cruciale dalle società aristocratiche alla società c.d. borghese. Nelle società aristocratiche, rimaste pressoché inalterate nella loro essenza fino all’ancien regime, si perpetua la divisione già presente nell’antica Sparta: spartiati, i nobili guerrieri, detentori iure viis et iure virtutis del potere militare, e di conseguenza anche del potere politico nonché del potere di sfruttamento economico (l’antico assoggettamento al tributo), perieci, mercanti e artigiani, e iloti, gli schiavi, i discendenti delle popolazioni sconfitte.

Nelle pseudo democrazie borghesi i plutocrati hanno il know how tecnico economico (la capacità di produrre ricchezza), nonché le potenzialità economiche per comprarsi eserciti e politici amministratori e per usare a loro piacimento le masse in rivolta contro i nobili.

Una volta eliminata l’aristocrazia nobiliare e acquisito il controllo dello stato, del fisco, del debito pubblico, dell’emissione di moneta, è stato primo interesse delle famiglie padrone della grande impresa e/o della criminalità organizzata tenere più bassa possibile la qualità di vita dei dominati: peggio sta il popolo (che le odia), più saldamente loro possono permanere al potere. Per questo è, al contrario, interesse primario del popolo appropriarsi della sovranità tramite forme possibili e funzionali di democrazia diretta.

Si deve allora tentare di definire un sistema globale, generalizzato di democrazia diretta in collettività numericamente rilevanti, presentando poche e chiare condizioni di esso, di immediata comprensione.

Tutti devono poter partecipare direttamente, in prima persona, alla gestione dei poteri pubblici, legislativo, amministrativo e giudiziario.

Perché tutti possano partecipare è necessario che la durata del ricoprimento della carica pubblica sia limitata a un periodo di tempo più o meno breve, e cioè che il conferimento della carica sia turnario.

Perché tutti possano realmente partecipare è necessario che il conferimento turnario della carica sia a semplice richiesta, senza ricorrere a elezioni e concorsi pubblici tanto formali quanto controllati e manipolati (ricorrere a elezioni vorrebbe dire far eleggere chi vuole il padrone, come avviene ora.

Perché ciò non dia luogo ad arbìtrii occorre che la carica, oltre che temporanea sia collegiale, e all’interno del collegio si decida a maggioranza.


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Perché i collegi operino con la dovuta efficienza è necessario che parte dei loro seggi siano riservati a cittadini professionalmente competenti nei settori oggetto dell’attività del collegio.

Si può così definire come proposta di democrazia sostanziale la democrazia diretta, che per essere applicata a collettività oltre che locali, anche regionali e nazionali deve essere turnaria, a semplice richiesta, e collegiale, con riserva parziale di seggi per competenze. Un cursus honorum può graduare l’avanzamento verso il ricoprimento di cariche di maggior importanza, riservandolo a soggetti che abbiano già ricoperto cariche minori e che abbiano così acquisito competenze e know how.

Immaginare e proporre alternative di vera democrazia è un’esperienza creativa, formativa, libertaria, infinitamente più valida rispetto all’accettazione supina, acritica e ossequiente di uno status quo accuratamente costruito dai pochi per il dominio sui molti.

Per chi appartiene con dignità e senza masochismo al popolo, concretizzare alternative dovrebbe essere preferibile allo stagnare nell’abitudine del servo che ogni mattina si alza e va a lavorare per mantenere i suoi persecutori.

Ma come abbiamo dissertato sulla qualità di governanti delle attuali famiglie padrone, a questo punto è d’obbligo interrogarsi sulla qualità, unità, virtù e dignità dei soggetti e delle famiglie componenti il popolo asservito.

Autore: Avv. Prof. Filippo Matteucci

Avv. Prof. Filippo Matteucci: Austrian Privatist Economist and Anarcho-Capitalist Libertarian Theorist
Teorico della democrazia turnaria e dell’economia privatista.
Esperto in diritto costituzionale, scienza delle finanze, mercati e strumenti finanziari, contrattualistica, diritto di famiglia.

E' stato docente di:
Discipline giuridiche ed economiche
Scienza delle finanze
Contrattualistica internazionale
Legislazione sociale
Legislazione dei beni culturali

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